Sunday, July 30, 2006

il fascismo con la kefiah

ancora un altro stralcio di un reportage di bernard-henri lévy sulla guerra in medioriente.

Oggi, 17 luglio, è l'anniversario dello scoppio della guerra di Spagna. Sono passati settant'anni dal putsch dei generali che diede l'avvio alla guerra civile, ideologica e internazionale voluta dal fascismo dell'epoca. E non posso non pensarci, non posso non fare l'accostamento mentre atterro a Tel Aviv. La Siria dietro le quinte... L'Iran di Ahmadinejad pronto all'azione. L'Hezbollah di cui tutti sanno che è un piccolo Iran, o un piccolo tiranno, che non ha esitato a prendere in ostaggio il Libano. E come sfondo, il fascismo con il volto dell'integralismo islamico, quel terzo fascismo che, come tutto indica, sta alla nostra generazione come l'altro fascismo, poi il totalitarismo comunista, stavano a quella dei nostri padri.Fin dal mio arrivo, fin dai primi contatti con i vecchi amici che dal 1967 non avevo mai visto così tesi né così ansiosi, fin dalla mia prima conversazione con Denis Charbit, militante nel campo della pace, il quale non dubita della legittimità di questa guerra di autodifesa imposta al suo Paese, fin dal primo incontro con Tzipi Livni — la giovane e brillante ministro degli Esteri che tanto contribuì a convincere Ariel Sharon a evacuare Gaza e che ora trovo stranamente disorientata davanti a una geopolitica nuova e sotto molti aspetti indecifrabile per intelletti formati sulle categorie standard del conflitto «arabo-israeliano» tradizionale — sento che nella storia delle guerre d'Israele c'è in gioco qualcosa d'inedito. Come se, appunto, non fossimo più molto sicuri di essere limitati all'ambito d'Israele. Come se il contesto internazionale, il ruolo, ancora una volta, dell'Iran e del suo braccio armato Hezbollah dessero a tutta la faccenda un profumo e prospettive inediti. Prima di salire verso il fronte nord, ci dirigiamo subito verso Sderot, la città martire di Sderot, alla frontiera di Gaza in guerra con gli alleati Hamas di Hezbollah... Eh sì, la città martire! Le informazioni che giungono dal Libano sono così terribili, l'idea stessa delle vittime civili libanesi è così insopportabile per la coscienza e il cuore, le inquadrature, le immagini del Sud di Beirut bombardata, passate e ripassate di continuo, sono diventate così perfettamente sistematiche che è difficile immaginare, lo so, che anche una città israeliana possa essere una città martire. Eppure... Le strade vuote... Le case sventrate o crivellate da schegge di granate... La montagna di razzi esplosi depositati nel cortile del commissariato centrale, che sono caduti nelle ultime settimane... Oggi, la pioggia di altre granate che si è abbattuta sul centro della città, obbligando le poche persone che avevano l'intenzione di approfittare della brezza estiva a ridiscendere nelle cantine... Poi, religiosamente appuntate su un pannello di tessuto nero nell'ufficio del sindaco, Eli Moyal, le foto di quindici giovani, alcuni bambini, morti negli ultimi tempi sotto il fuoco degli artificieri palestinesi...[...] Gli israeliani non sono dei santi. Ed è evidente che sono capaci, in una situazione di guerra, di operazioni, manipolazioni, dinieghi machiavellici. Eppure, un segno indica che questa guerra qui non l'hanno voluta ed è caduta loro addosso come una cattiva sorte. Questo segno è la scelta, al posto di ministro della Difesa, dell'ex militante di La Paix Maintenant, «Pace adesso», che da sempre ha aderito alla causa della spartizione della terra con i palestinesi, dirigente della centrale sindacale Histadrouth e assai meglio preparato, in linea di principio, a fare scioperi che a fare la guerra: è Amir Peretz. «Stanotte non ho dormito», comincia, pallidissimo, gli occhi arrossati, nel piccolo ufficio dove ci riceve, insieme con l'editorialista di Haaretz, Daniel Ben Simon; ufficio che non è nel Ministero ma nella sede del Partito laburista. «Non ho dormito perché ho passato la notte ad aspettare notizie di un'unità di nostri ragazzi caduti, ieri pomeriggio, in un'imboscata, nel settore libanese...». Poi, dopo che un giovane aiutante, pure lui dall' aspetto di militante sindacale, gli ebbe teso e poi ripreso un telefono da campo da cui il ministro aveva ascoltato, senza una parola, gli occhi bassi, gli spessi baffi tremolanti per un'emozione mal controllata, le notizie che aspettava: «Non diffondete subito, per favore, perché le famiglie non sono al corrente; ma tre di loro sono morti e non sappiamo nulla del quarto, è terribile...». In quarant'anni, sono parecchi i ministri della Difesa di Israele che ho conosciuto. Da Moshe Dayan a Shimon Peres, Itzak Rabin, Ariel Sharon e altri ancora, ho visto succedersi eroi, semieroi, strateghi geniali e di talento e persone abili. Quello che non avevo mai visto è un ministro, non certo così umano (che la vita di un qualsiasi soldato abbia un prezzo inestimabile è una costante nella storia del Paese), né così civile (neanche Shimon Peres, dopotutto, aveva un vero passato militare), ma così poco formato, in compenso, a comandare un esercito in tempi di guerra (la sua prima decisione, fatto unico negli annali, non fu forse di amputare del 5% il budget del proprio ministero?), quello che non avevo mai visto è un ministro della Difesa che corrisponde così esattamente alle famose parole di Malraux sui comandanti del miracolo che «fanno la guerra senza amarla» e che, proprio per questa ragione, «finiscono sempre per vincerla». Amir Peretz, come i personaggi di André Malraux, vincerà. Ma il fatto che sia stato nominato indica che Israele, dopo i ritiri dal Libano e da Gaza, pensava di entrare in una nuova era, dove occorreva preparare la pace, non la guerra...[...] Risalire verso Avivim. Poi, da Avivim fino a Manara, tenuta dagli israeliani, dove hanno installato, in un circo di duecento metri di diametro, un campo di artiglieria con due cannoni montati su cingolati che bombardano, dall'altra parte della frontiera, gli arsenali, il comando e i lanciarazzi di Maroun al-Ras. Tre cose qui mi colpiscono. L'estrema giovinezza degli artiglieri: vent'anni; forse diciotto; la loro aria stupefatta quando parte il colpo, come se ogni volta fosse la prima; i loro scherzi da ragazzi quando l'amico non ha avuto il tempo di otturarsi le orecchie e la detonazione lo stordisce; poi, al tempo stesso, il lato grave, compreso, di chi si sa agli avamposti di un dramma immenso, e che lo sconcerta. L'aspetto indolente, stavo per dire trasandato, e l'aria sfaccendata di una piccola compagnia che mi ricorda irresistibilmente il gioioso caos dei battaglioni di giovani repubblicani descritti, ancora una volta, da André Malraux: un esercito più simpatico che marziale; più democratico che sicuro di sé e dominatore; un esercito che qui, in questo caso, mi pare agli antipodi dei battaglioni di bruti, o di Terminators senza principi né pietà, che tanto spesso hanno descritto i grandi mass media europei.
Poi quello strano veicolo, esteriormente simile a due cannoni autotrasportati, ma posteggiato in disparte e che non spara: questo terzo veicolo è una sala macchine mobile, dove si entra, come in un sommergibile, da una torretta e una scala esterna; dentro vi sono sei uomini, certi giorni sette, che si danno da fare attorno a una batteria di radar, computer e altri apparecchi di trasmissione il cui ruolo è di raccogliere informazioni per poi determinare i parametri di tiro da trasmettere agli obici; la verità è che all'origine del fuoco israeliano c'è un vero e proprio laboratorio di guerra dove soldati-scienziati, col naso incollato agli schermi, tentando d'integrare i dati più imponderabili che arrivano dal campo, sviluppano un'intelligenza ottimale per calcolare la distanza del bersaglio, la sua rapidità di spostamento e, last but not least, il grado di prossimità di civili: almeno qui, ne sono testimone, l'obiettivo prioritario è di evitarli. Con David Grossman c'incontriamo in un ristorante all'aperto di Abu Gosh, davanti ai monti di Gerusalemme, che mi sembra un Eden dopo l'inferno degli ultimi giorni: sole sfolgorante, rumore d'insetti che non è più quello degli aerei né dei cingolati dei carri armati, un soffio di spensieratezza, un venticello leggero.... Parliamo del suo ultimo libro che è una rilettura del «mito di Sansone». Di suo figlio, appena arruolato in un'unità di carristi e per il quale sento che trema. Commentiamo una statistica che ha letto e lo preoccupa: secondo l'articolo, quasi un terzo di giovani israeliani avrebbero perso la fiducia nel sionismo e ricorrerebbero a certe astuzie per farsi esentare dal servizio militare. Poi naturalmente discutiamo della guerra, e del grandissimo malessere in cui, come gli altri intellettuali progressisti del Paese, sembra averlo fatto sprofondare... Da un lato, mi spiega Grossman, c'è la vastità delle distruzioni, il rischio dell'avvampare di una guerra civile in Libano; c'è l'errore di essersi imposti un traguardo così arduo (distruggere Hezbollah, rendere le loro infrastrutture e l'esercito innocui...) che persino una mezza vittoria rischia, giunto il momento, di avere il profumo di una sconfitta. Ma, dall'altro, c'è l'attacco sorpresa di Hezbollah contro un Paese, Israele, che si era successivamente ritirato dal Libano e poi da Gaza; c'è il diritto d'Israele, come di qualunque altro Stato del mondo, a non rimanere con le mani in mano di fronte a un'aggressione così folle, immotivata, gratuita; c'è il fatto, insiste, che il Libano è il Paese d'accoglienza di Hezbollah, il suo alleato; un Paese, al tempo stesso, al cui governo Hezbollah partecipa pienamente. Dall'altro lato, dunque, c'è il fatto che la risposta israeliana non poteva esser portata se non sul suolo libanese... Osservo David Grossman. Scruto il suo bel volto di ex bambino prodigio della letteratura israeliana invecchiato troppo presto e divorato dalla malinconia. Non è soltanto uno dei grandi romanzieri israeliani odierni. E' anche, con Amos Oz, Avraham Yehoshua e qualcun altro, una delle coscienze morali del Paese. E credo che la sua testimonianza, la sua fermezza, il suo non cedere sulla giustezza della causa d'Israele dovrebbero convincere gli animi più perplessi. Infine, Shimon Peres. Non volevo terminare questo viaggio senza andare, come ogni volta, ma stavolta più che mai, da Shimon Peres. E' Daniel Saada, un amico di altri tempi, membro fondatore di Sos Razzismo, stabilitosi in Israele e diventato anch'egli suo amico, a portarmi da lui. «Shimon», come tutti lo chiamano qui, ha 84 anni. Ma non ha perso nulla della sua prestanza. Né del suo magnifico aspetto di principe-abate del sionismo. Ha sempre lo stesso viso, grande fronte e grandi labbra, che sottolinea l'autorità melodiosa della voce. A momenti, ho persino l'impressione che abbia voluto incorporarsi una leggera amarezza nel sorriso, un bagliore nello sguardo, un portamento e, talvolta, di accentuare le parole che non erano proprie ma del suo vecchio rivale Yitzhak Rabin. «Tutto il problema — comincia — è il fallimento di quello che uno dei vostri grandi scrittori chiamava la strategia da stato maggiore. Nessuno, oggi, controlla più nessuno. Nessuno ha il potere di fermare né di dominare nessuno. Di modo che noi, Israele, non abbiamo mai avuto tanti amici come adesso; amici che però, nella nostra Storia, non sono mai stati così inutili. Salvo...». Peres prega la figlia, una signora di una certa età che assiste alla conversazione, di andare, nell'ufficio vicino, a cercare due lettere di Abu Mazen e Bill Clinton. «Sì, salvo che voi li avete, gli uomini di buona volontà. I miei amici. Gli amici dei Lumi e della pace. Quelli che né il terrorismo né il nichilismo né il disfattismo porteranno mai a rinunciare. Noi abbiamo un progetto, sa... Sempre lo stesso progetto di prosperità, sviluppo condiviso, che finirà per trionfare... Ascolti...». Shimon ha fatto un sogno. Shimon è un giovane uomo di 84 anni il cui invincibile sogno dura, in effetti, da trent'anni e la presente impasse, lungi dallo scoraggiarlo, sembra misteriosamente stimolarlo. L'ascolto, dunque. Ascolto questo Saggio d'Israele spiegarmi che occorre simultaneamente «vincere questa guerra imposta», squalificare il «quartetto del male» costituito da Iran, Siria, Hamas e Hezbollah e aprire «vie di parola e di dialogo» che, un giorno o l'altro, finiranno pur per portare da qualche parte. Ascoltandolo, riudendo queste profezie vecchie ma che oggi, non so perché, mi sembrano avere un coefficiente nuovo di evidenza e di forza, mi metto a immaginare pure io la gloria di uno Stato ebraico che osasse, nello stesso tempo, quasi lo stesso gesto, dire e soprattutto fare le due cose: agli uni, ahimè, la guerra; agli altri, una dichiarazione di pace che, all'improvviso, non lascerebbe più scelta.

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